Empatia e Teatro. Teatro e empatia.
Empatia è Teatro? Teatro è empatia?
Da questa domanda propongo una breve riflessone per distinguere le due cose, connetterle e poi disgiungerle di nuovo, perché: ogni cosa ha il suo posto e ogni posto la sua cosa.
Empatia è la capacità di partecipare alle emozioni degli altri COME SE fossimo loro.
Porsi nella situazione dell’altro come se noi fossimo in quella esatta situazione. I famosi panni dell’altro.
La dimensione del COME SE è fondamentale. Infatti, se provassimo le emozioni di altri non saremmo empatici bensì sensitivi, telepatici o più probabilmente avremmo dei disturbi psichici. Pensate al significato di queste frasi:
▪️ “sento perfettamente quello se provi”
▪️ “riesco a sentire la tua sofferenza”
▪️ “provo la stessa cosa che provi tu in questo momento”
Ovviamente si tratta anche di forme frasali colloquiali, modi di dire, cose su cui ci intendiamo per lo più. Se però li prendessimo alla lettera non possiamo dire sul serio. Non possiamo sentire quello che sente l’altro, che diamine!
Possiamo però immedesimarci negli altri e provare delle emozioni perché ci impegniamo a immaginare di essere qualcun altro. Questa è empatia.
ATTENZIONE. Ci sono molti midi connessi all’empatia. In alcuni casi davvero molto fastidiosi.
Sfatiamo il primo mito: la capacità di sintonizzarsi con quanto l’altra persona sta esperendo non sta a significare che si possa sentire sempre la stessa cosa. L’empatia che provo è connessa a come mi sento oggi, a quanto quello che l’altro sta comunicando è chiaro per me, ai segnali, ai fattori interni ed esterni che mi permettono di coglierli. Insomma un bel casino. E’ per questo che educatori, psicologi o medici hanno necessità di un supervisore, ovvero un professionista che possa aiutare nello sbrogliare scorie emotive e psichiche che possono accumularsi a furia di esercitare professioni che richiedono un massiccio uso di questa capacità così misteriosa.
Sfatiamo subito un altro mito? Se decidiamo di non interessarci a quello che gli altri provano o se semplicemente non lo diamo a vedere, non significa che siamo dei mostri egomaniaci, insensibili vampiri e affiliati di Voldemort. E’ molto più probabile che non ci interessi la persona per cui stiamo provando empatia o che la nostra relazione non ci permette di esprimere quello che sto intuendo empaticamente o magari controlliamo la nostra capacità empatica per motivi professionali, comunicativi o personali. Ci possono essere molti motivi.
ESEMPIO. Pensiamo quanta empatia deve provare un medico nei confronti di un paziente. Non sempre è libero di esprimere quelle emozioni vissute per empatia. Delle volte DEVE controllarsi per non peggiorare la situazione.
La capacità di partecipare e condividere sentimenti ed emozioni chiama in causa almeno 2 livelli mentali. Il primo potremmo dire che è più automatico. Il secondo invece no.
Infatti siamo in grado di comprendere lo stato d’animo degli altri grazie a un meccanismo veloce e pre-razionale basato sui neuroni a specchio, ma attiviamo anche un processo di riconoscimento per comprendere le emozioni che si basa su attenzione e razionalità.
Nel primo caso, grazie ai famigerati neuroni a specchio, l’esperienza viene vissuta come se fosse la nostra stessa esperienza. I neuroni a specchio non solo riescono a intuire il movimento o stimoli visivi interpretandoli sottoforma di azione (riescono a capire velocemente se vi state alzando oppure se state per girarvi a dare il cinque) ma riescono anche a interpretare le intenzioni a una velocità sorprendente. Oltre a capire che state per afferrare il coltello, riescono a capire se lo fate per spalmare il burro oppure per affondarlo nel petto del commensale vicino.
Il pensiero può facilmente inibire questa capacità, frenarla e finanche bloccarla. Per questo è facile che diverse persone non provino empatia nei confronti della sofferenza di animali o di persone appartenenti ad altre classi sociali o altre etnie (nei sistemi sociali come il nostro che sono differenziati per gruppo, è più facile provare empatia per i membri che appartengono al proprio gruppo che non agli altri!).
Pensate che nella psicoterapia non è stata in voga fino all’intervento di Carl Rogers (è ben noto quanto Sigmund Freud non fosse proprio un terapeuta dei più empatici) e si diffuse ampiamente nel grande pubblico e nell’uso comune grazie agli studi di Goleman (1925) pubblicati in modo molto accessibile nel suo celeberrimo libro “Intelligenza Emotiva” nel 1995.
Milton Erickson si basa sull’empatia per mettere a punto una tecnica davvero efficace per l’uso dell’empatia in ambito terapeutico. Nel 1977 Richard Bandler e John Grinder spiegarono nello storico libro “I modelli della tecnica ipnotica di Milton Erickson” quello che avevano denominato Milton Model. Il più potente concetto è denominato “ricalco”, ossia una modalità verbale e non verbale in cui il terapeuta propone al paziente alcune sue modalità. Questo dà conferma al paziente che l’altro lo sta ascoltando ed è interessato a lui.
Grazie agli strumenti del Milton Model molti formatori, coach, counselor e venditori hanno affinato la loro professionalità rendendo la loro empatia un attrezzo di lavoro.
Veniamo al TEATRO. Spesso sentiamo questa sviolinata per cui il teatro può essere un ponte tra persone, culture, religioni, popoli e realtà differenti come lo è tra attore e spettatore. Certo che sì. E’ così. Assolutamente vero, però il passaggio successivo non deve essere l’affermazione che questo ponte coincida con l’empatia.
In vero il teatro, grazie proprio al meccanismo che si basa su “essere come se” e “facciamo finta di” è piuttosto un’occasione per allenare l’empatia. Sarà bene ricordare però che non solo è possibile che col teatro l’empatia di una persona non venga più di tanto implementata, ma che addirittura si atrofizzi e si traduca in sordità emotiva. Altrettanto possibile che chi soffra di un particolare disturbo che riduce sensibilmente di esercitare empatia possa comunque recitare. Il teatro è anche un insieme di tecniche e strumenti, non è mica tutto psicologia!
Tutto è possibile e dipende dal modo in cui il teatro lo si impara e lo si vive. Ricordo a tutti che sono esistiti anche fior fior di registi con una grande capacità di comprendere gli altri e creare spettacoli meravigliosi e questo non impediva loro di essere delle bestie di satana con attori e tecnici che rimanevano spesso traumatizzati dalla mancanza di umanità di questi colossi del palcoscenico.
Personalmente credo che non sia necessario fare teatro col sorriso e continuando ad affermare l’amore che si prova per gli altri. Non credo che per crescere empaticamente sia necessario “narrarsi” empatico. Credo invece che sia necessario allenare quel “come se“, che fino al momento della chiusura del sipario è l’unica cosa che separa me da mio personaggio. Un confine che può essere stretto, magari labile a causa di una forte identificazione o una straordinaria sensibilità dell’attrice o dell’attore in gioco, ma di certo dovrà essere saldo e certo. Un limite sicuro dietro cui ritornare nel momento in cui l’altro (personaggio o persona) sta riempiendomi eccessivamente e invadendo territori emotivi che magari all’inizio della nostra relazione non pensavo gli avrei concesso.
Samuel Maverick Zucchiati
Professional Counselor, regista, formatore in ambito teatrale e aziendale
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